«Dai Tg più ansia ma i talk show sono migliorati»

Aldo Grasso: «Vi spiego com'è cambiata la comunicazione» «Il Covid è come una guerra che in Italia per la prima volta viviamo in diretta all’interno dei nostri confini. Gli ospiti in studio, senza pubblico, fanno discorsi più concreti. Il mio Toro? Dico ai tifosi che dobbiamo tenerci stretto Cairo»

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Aldo Grasso, l’epidemia ha generato una infodemia: co­me è cambiata l’in­­for­ma­zio­ne in questi mesi sotto attacco del Covid?
«È cambiata moltissimo per tutte le costrizioni con cui ab­biamo fatto i conti. L’effetto più evidente forse si è notato nei collegamenti con gli ospiti che non possono più essere presenti negli studi televisivi. Questo ha causato un cambiamento nella sostanza stessa del genere più diffuso, i “talk show”».

In che modo sono cambiati?
«Un conto è parlare in studio, un altro farlo da casa. Non è solo una questione di distanziamento fisico, ma soprattutto di empatia. E così assistiamo a una serie di piccoli monologhi tra ospiti più che a un confronto autentico. Il tentativo di ri­pri­stinare la vecchia modalità, alla luce del contesto attuale, porta solo a un risultato confuso: le voci si sovrappongono, inoltre ci sono a volte problemi di linea, lo “streaming” non va. Si creano discorsi spezzati».

In studio, poi, manca il pubblico: anche questa situazione influisce?
«Questo è il secondo aspetto. La mancanza di pubblico negli studi televisivi ha già cambiato la comunicazione. Ma in questo caso, forse, l’ha cambiata in me­glio. L’ospite è da so­lo e non fa discorsi strappa-ap­plau­si, non cerca gli slogan o le battute a tutti i costi. Quindi dedica maggiore attenzione a imbastire un discorso compiuto. E non è affatto un risvolto negativo, se pensiamo alla teatralizzazione che caratterizzava tutte le trasmissioni dell’ultimo periodo pre-Covid».

Biscardi, Costanzo e gli altri sono lontani anni luce?
«Quel tipo di televisione è or­mai di un’altra epoca».

Un altro cambiamento portato in tv dall’emergenza sanitaria?
«Ci siamo abituati alle immagini di bassa qualità, oltre che all’audio precario. Prima si trattava di situazioni intollerabili, non si poteva andare in onda così. Adesso è la normalità, il Covid ha aperto ai collegamenti quotidiani di bassa qualità dove immagini e audio sotto gli standard sono sempre più accettati».

Gli inviati hanno la mascherina, non trova che sia un’immagine simbolica?

«è un impedimento, però in un certo senso umanizza. E magari risolve il problema del trucco a ogni costo, oppure non ci fa vedere certi labbroni siliconati».

Solo questo?

«No, la maschera è vera e co­munica che c’è una situazione di emergenza grave, che la normalità è sospesa».

Che cosa pensa della comunicazione dei virologi?
«La prima osservazione è che nella categoria dei medici non c’era nessuna conoscenza di cosa fosse il virus. E che molti virologi hanno approfittato dei riflettori».

è il potere della tv?
«È tipico: se vai più volte in una trasmissione, non sei più tu ma diventi un personaggio e rappresenti qualcuno. Ma la domanda è un’altra: davvero in questi mesi c’era bisogno di comunicare un messaggio così ansiogeno?».

I telegiornali, intende?
«Se guardi i Tg le notizie sul Covid sono sempre in apertura e sempre sottolineate con enfasi. È un problema non da poco».

Quali conseguenze dobbiamo immaginare?
«Una carica ansiogena sempre più alta. In Italia non eravamo abituati a vivere in diretta un’emergenza come questa, per noi è un’esperienza nuova. Avevamo sempre seguito guerre lontane o fatti drammatici co­me l’11 settembre. Questa guerra è dentro ai nostri confini e in diretta, genera un’ansia difficile da stemperare. E gli ascolti dei Tg sono aumentati, anche perché la gente è confinata in casa».

C’è poi questo fenomeno della polarizzazione: per ogni argomento ci sono posizioni contrapposte senza zone di grigio. Perché?
«Più un argomento è forte, più c’è polarizzazione. Mi stupisco però per lo spazio che viene dedicato a chi si oppone con forza ai vaccini. Non sono certo favorevole a una censura, ma nel caso di problemi così importanti uno non vale uno. Conta la competenza: io mi baserei solo su questi princìpi».

A proposito di censura, come valuta il caso “social-Trump”?
«Mi stupisco di chi si stupisce. Non si tratta di censura. I “social” in questione sono aziende che seguono una “policy” precisa, che blocca la fase news e ogni altra notizia non conforme. È come se Twitter dicesse: questo signore da anni dice cose al limite e per questo motivo non intendiamo dargli spazio. Negli anni Trump ha disprezzato apertamente i me­dia, ha insultato giornalisti, interrotto mediazioni. Ora i “social” gli si sono rivoltati contro».

Non ritiene che, in una democrazia, un governo nazionale do­vrebbe comunque tutelare la libertà d’espressione dove un privato non lo fa?
«In un mondo ideale forse sì, ma già in Italia non funziona bene l’Agcom, nel mondo poi è ancora più difficile. Le cose funzionano quando gli organismi hanno in sé gli anticorpi. Se una “policy” aziendale si propone di combattere le bugie, chi trasgredisce viene bloccato».

Voltiamo pagina: ce la fa il suo Toro a salvarsi?
«Non saprei, ma innanzitutto c’è un senso di profonda amarezza. Vedere vicina alla B la squadra a cui sei tanto legato dal punto di vista emotivo e sentimentale non è piacevole».

Quali errori sono stati commessi?
«Quello principale è stato affidare la squadra a un allenatore che ha un progetto ma non i giocatori per quel progetto. Poi però gli allenatori bravi sono quelli che sanno sfruttare i giocatori che hanno. Ma è un serpente che si morde la coda».

Quale dettaglio la preoccupa maggiormente?
«Mi fa paura una cosa: i tifosi del Toro sono particolari, è una piazza particolare. Ricordo uno dei presidenti migliori, Rossi, che dovette andarsene su pressione dei tifosi. E da allora le cose sono andate sempre peggio. Cairo? Bisogna tenerselo stretto e fare i conti con la realtà, non ci sono sceicchi oppure la Red Bull che bussano alla porta. Il tifoso che gioca con le figurine vuole fare il presidente con i soldi degli altri».