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«Preferisco combattere stando in prima linea»

La dottoressa saluzzese Attilia Gullino è tornata a lavorare in ospedale dopo la prima ondata di Covid, per dare il proprio contributo

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L’aspettativa… può aspettare. Dopo averla richiesta tre anni fa, per occuparsi a tempo pieno degli incarichi amministrativi come assessore comunale a Saluzzo, la dottoressa Attilia Gullino ha deciso di rimettere indosso il camice e scendere nuovamente in corsia. A IDEA racconta cosa abbia significato questo suo ritorno in prima linea, coincisa con la prima ondata della pandemia.

Cosa le è mancato di più nel periodo passato lontano dalle corsie dell’ospedale?
«Mi sono mancati i rapporti con i miei colleghi e con il gruppo, ma sinceramente l’attività amministrativa mi ha coinvolto molto e non ho avuto tempo per sentire nostalgia del passato. Inoltre, sapevo che sarei potuta tornare quando fosse arrivato il momento e ho cercato di tenermi aggiornata nonostante la lontananza dalla pratica ospedaliera».

Non le fa paura l’idea di rimettere indosso il camice in un periodo così difficile?
«Paura direi di no, piuttosto si è trattato di una scelta istintiva, di una spinta interiore verso quello che è il mio lavoro, da sempre, in un momento in cui la mia presenza poteva essere più importante che in altri contesti».

La sua famiglia come ha preso tale decisione?

«Bene. Siamo una famiglia che condivide le scelte importanti, ma rispetta la libertà di ciascuno. La mia famiglia mi conosce bene e sapeva che avrei preso questa decisione, quindi non si è opposta, al contrario mi ha appoggiato».

Ha trovato il mondo della medicina cambiato dopo il suo ritorno in corsia?
«L’ho trovato cambiato perché sono rientrata a marzo, proprio nel cuore della prima ondata. Ho trovato un’atmosfera quasi surreale, nuovi protocolli cui abituarmi, ma la stessa cosa valeva anche per tutti gli altri. Ho trovato per fortuna anche molta solidarietà, vecchi e nuovi amici, e questo di certo mi ha aiutato».

Come vive questo periodo professionalmente parlando?

«Lo vivo bene. Da ottobre siamo ripiombati nella dimensione Covid a tutti gli effetti, con carichi di lavoro superiori rispetto alla primavera, ma con un po’ di esperienza in più. Subito, quando ci siamo ritrovati travolti dalla seconda ondata, c’è stato un momento di sconforto al pensiero di ciò che ci aspettava. Adesso però ci stiamo abituando di nuovo ai ritmi e alle modalità di lavoro e teniamo duro, tutti quanti. Potendo, preferisco  combattere in prima linea piuttosto che stare a guardare, soggettivamente è una dimensione che mi fa vivere meglio questo momento. Non credo potrei viverlo in un altro modo».

Si è mai pentita della scelta fatta la scorsa primavera?
«No, mai. Credo mi sarei pentita del contrario. Quando questa emergenza finirà però non credo che continuerò a lavorare in ospedale, ci sono altre cose che vorrei fare, vedremo».

Cosa pensa del fatto che alcuni, come lei, fanno un grande passo a favore della collettività, mentre una buona parte della popolazione non fa nemmeno il “passetto” che viene chiesto loro, mantenendo le distanze, usando le mascherine ecc?

«La mia è stata una scelta individuale, dettata dalla mia formazione e dal mio carattere. La scelta giusta per me. Non significa che debba esserlo per tutti. Più in generale, penso che sfugga a molti il problema centrale della questione: occorre rallentare i contagi per evitare l’intasamento degli ospedali  e delle terapie intensive soprattutto. Il virus è molto contagioso e anche se la letalità non è così alta, più il numero dei contagiati cresce in fretta più diventa difficile gestire i casi più gravi, che purtroppo ci sono e non colpiscono solo le categorie più fragili. Di questo virus si è detto molto, ma si sa ancora poco. L’evoluzione dell’infezione è spes­so imprevedibile e le cure sono perlopiù “off-label” (ovvero si utilizzano farmaci somministrati al di fuori delle condizioni autorizzate dagli enti predisposti per patologia, popolazione o posologia, ndr) e di non certa efficacia. Il sacrificio chiesto per la seconda volta alle nostre comunità ha di certo un costo emotivo, sociale ed economico non indifferente, ma è necessario per permettere di salvare il maggior numero possibile di malati. Trovarsi nella condizione di scegliere chi provare a salvare e chi no è una cosa disumana, ma non siamo così lontani dal doverlo fare».

E dei negazionisti cosa pensa?
«Inviterei i negazionisti a farsi un giro nelle terapie intensive della nostra Regione, forse capirebbero che il Sars Cov 2 è assolutamente democratico, non ha colore politico ed è l’unico vero grande nemico in questo momento. Servirebbe una nuova rivoluzione  illuminista che ci facesse uscire da questo medioevo di cori da stadio. In questo la politica ha di certo una responsabilità».

Quali aspetti della sua passata esperienza medica si è portata dietro nelle attività che ha svolto durante la sua aspettativa?
«Tutto. Se sei un medico, lo sei per sempre. Amministrare un Comune è un servizio per la collettività, è comunque un prendersi cura degli altri, in modo diverso. Lo spirito pe­rò è lo stesso, almeno per me».
Ci ha confidato che suo figlio maggiore vive all’estero, quanto pesa la distanza in un momento del genere?
«Mio figlio Carlo, studia a Madrid. La distanza sarebbe comunque pesante, ma è giusto che si costruisca la sua vita. È un ragazzo responsabile e attento, ci sentiamo quasi ogni giorno con Fa­ceTime o Whatsapp, speriamo che vada tutto bene e di poterci rivedere presto».

BaNNER
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