Savigliano, le parole di un ristoratore in seguito al Dpcm: “Ho la certezza che nessuno ci aiuterà!”

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Nel Dpcm firmato ieri mattina, domenica 25 ottobre, dal presidente Conte, viene istituita la chiusura di tutti i bar, ristoranti, pub, gelaterie e pasticcerie alle ore 18, oltre che la chiusura totale di cinema, teatri, palestre e piscine.

Le categorie, che tra le tante, risentono quindi di questa situazione, sono quelle dei ristoratori, i quali, dopo una prima diminuzione, se non alienazione totale del fatturato per quanto riguarda i pranzi, in seguito a smart working e riduzione della clientela, sono costretti ad affrontare un nuovo DPCM che include la chiusura alle ore 18 con possibilità di asporto o consegne a domicilio.

Mattia, proprietario della “Taverna del Teatro“, ristorante sito in Savigliano, portato avanti da due generazioni, ha fatto sentire la sua voce, ricca di delusione:

“La mia è una piccola attività famigliare, ho tra i quaranta ed i cinquanta posti a sedere normalmente, ora si può arrivare ad una trentina massimo, ma riempire il locale a pranzo in settimana, con la richiesta dello stato di mettere il più possibile i dipendenti in Smart-working, la vedo difficile. Già dalla fine del primo lockdown avevamo deciso di non aprire più a pranzo per via della poca affluenza. I nostri clienti storici, che erano dipendenti/dirigenti di aziende locali e multinazionali lavorano, per la maggior parte dei casi, dalla propria abitazione.

Il nostro orario era dal martedì al sabato solo a cena e la domenica pranzo e cena. Con il nuovo decreto come può essere la mia prospettiva di aprire solo a pranzo? Ma non è detto che il sabato e la domenica non si riesca a fare un bel lavoro. Certo è un cercare di sopravvivere, di stare a galla e non fallire, sicuro non si può pensare di portare a casa degli utili. Stare chiusi 4 mesi su dodici. Non basta per pagare le spese, le tasse, i dipendenti e fare utili. Ad una di queste cose bisogna rinunciare e gli onesti rinunciano agli utili, ma non tutti si comportano così. Per quanto mi riguarda, cercherò di non lasciare a casa nessuno, perché nessuno deve rimanere indietro (a questo credevo fino a tre o quattro anni fa). Faremo i turni, per fortuna i ragazzi che mi danno una mano hanno anche altri lavori o studiano e vengono da me per arrotondare. Persone che fanno sacrifici, perché il lavoro nei ristoranti è duro con orari che impongono la rinuncia al divertimento. Ma siamo una famiglia, e passeremo anche questa crisi, trovandoci, appena sarà possibile, a fare pranzo tutti insieme, con una buona bottiglia di vino facendo quattro risate come abbiamo sempre fatto”.

In un lungo commento inserito all’interno della pagina social del locale, Mattia, dopo uno sfogo, giustificato dalla situazione, saluta i clienti, ringraziandoli per la vicinanza:

Così come l’8 marzo, spengo le luci e saluto la Taverna. Le differenze però sono enormi: allora pensavo di chiudere un paio di settimane, lo facevo per la salute nostra (mia e dei dipendenti) e vostra (dei clienti) e per dare un piccolo contributo alla comunità, cercando di fermare il più in fretta possibile il diffondersi del Covid-19. Lo facevo sulle note di Viva l’Italia di De Gregori. Mai avrei pensato di riaprire quasi tre mesi dopo, totalmente abbandonato dallo stato, che dopo mille promesse ci ha lasciato le briciole, facendoci pagare tutte le tasse solo rinviate. Questa sera ho la certezza che nessuno ci aiuterà, i soldi non arriveranno e che forse rimboccarsi le maniche non basterà.

Chiudo con la certezza che l’attività, ora mia e prima di mio padre, costruita giorno dopo giorno per quasi trent’anni, ora come ora non vale più niente. Tutta la ricerca fatta sulla materia prima, sulla tradizione, sulla sperimentazione, sull’impiattamento, i giorni passati per le cantine a cercare i vini sono vani, non rimane più niente, solo un locale vuoto che non può ospitare i commensali la sera per una cena tra amici, per una ricorrenza, per festeggiare qualcosa, per degustare due vini e mangiare due piatti sfiziosi. Come un attore che entra in un teatro vuoto.

Poi ci penso bene e qualche cosa forse resta: restano le tasse, le bollette, l’affitto e tutte le altre cose da pagare. Viene lo sconforto, viene la voglia di gettare la spugna. Ma poi penso che resta anche altro: restate voi, che mi scrivete sul mio cellulare per darmi conforto, che passate a salutarmi dicendo che rimarrete al nostro fianco, che ieri sera, oggi a pranzo ed a cena siete andati via dicendomi di non mollare, grazie a quel legame creato attorno al tavolo lungo un’intera cena.