L’ultima vite (e tutto quello che ne deriva)

Quando resta solo il necessario per l’eventuale “cappello” alle vasche, è l’ora di bilanci e poesia

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La cerchi, ma sai che è lì: l’ultima vite, lasciata intatta, pura a suo mo­do, nella “partouze” della vendemmia. L’hai tenuta lì, come l’ultima freccia di Bard: per fare l’ultimo “cappello” alle vasche che stanno ancora ribollendo in cantina e ti hanno fatto scendere più volte dal letto in queste sere, in queste notti. L’hai salvata per tornarci, per respirare ancora il suono degli infiniti “tac-tac” della raccolta, e che pareva non dovessero finire mai.
Ed eccola, ancora lì, come un nastro rovesciato: non l’ha toccata nessuno, nemmeno la volpe, nemmeno un cacciatore; pare nuova, densa, tesa, opposta a qualunque temperanza. Sa già di vino, quasi di sesso: gli ultimi grappoli, prima che l’eterna ruota del tempo ti possa condurre di nuovo qua, tra filari trasformati.
Nostalgia degli sforzi della stagione appena finita? No, per niente. È stato fantastico, come tutti gli anni: la giostra delle ore e degli orari incastrati per riuscire a fare tutto, gli imprevisti positivi e micragnosi, le corse, il pensiero che niente è mai fi­nito. Ed è un bene, parola di roerino. È stato bello perché questa è una stagione che fa rima con parole come “famiglia”, “Mombirone”, sarabande di giorni che iniziano prestissimo e finiscono molto tardi, orologi capovolti. Ma è come un addio alle armi, temporaneo: perché, come la guerriglia, la vendemmia non conosce congedo.
Chi parla di “festa della vendemmia” non fa altro che raccontare una gran menzogna: perché non sa, non l’ha mai vissuta, e preferisce bearsi di parole piene di poesia a uso dei babbei di turno. Pensi alle tante immagini che, ogni anno in quest’epoca, tornano di moda come un paio di sandali: alle foto sorridenti di ragazze e ragazzi di ogni età, presi dalla strada come un film di Pasolini, non bellissimi per sembrare più realistici, nelle loro pose plastiche senza trucchi e con le mani orribilmente pulite. E li mostrano, i loro grappoli magari perfetti, ma che non c’entrano nulla col periodo. Strappati anzitempo, un MacDuff che decapita il suo Macbeth: in nome di quella parola, “territorio”, di cui ormai ci siamo riempiti la bocca come un fustino di popcorn senza sale, che non sanno più di niente.
È uno schifo di retorica, vagito d’impotenza. Se proprio lo trovi, in quei giorni, il tempo di fare una foto e un pensiero, sai che nulla sarà perfetto; ma sarà più vero. Perché di quelle uve, di quel vino, ci campi pure: ed è mestiere che nobilita, e giustamente paga gli sforzi di chi, in quelle vigne, ci va ogni giorno per lavoro misto a passione e pazienza. Il vino è un’idea, ma anche un prodotto. Arrivarci solo ora, da una tastiera, è roba che fa risuonare perfetto quel motto siciliano che dice: «Quando è tempo di zappare e di potare non c’è né nipote né compare. Quando è tempo di vendemmia… tutti nipoti e tutti compari».
Così ragioni, ma mica per indolenza, o per celia: è solo che non ti va di correre in tondo, viaggiare senza andare da nessuna parte. Come tutti, come molti, pensi che sia meglio “portare il grappolo al torchio” e vedere come va a finire questa storia.
Perché quelle cassette rosse le abbiamo spostate, trascinate, riempite, caricate, pigiate e, adesso, vogliamo vedere come va a finire. Dalla trepidazione nel compilare le bolle, nel leggere il primo “babo” per svelare l’enigma del grado zuccherino: ai riti del torchiare, tirare, aspettare, ti accorgi che non c’è nulla di venale. E, mentre controlli a notte la vasca del Barbera che stai facendo per te, ti ricordi di cosa diceva l’immortale Gemma di Roddino: «Non ho tempo di vedere se ci rimetto o ci guadagno, io devo lavorare!». E aveva ragione, quella mattina di tanti anni fa. Ragione da vendere.
E ti arrabatti, e sperimenti, te ne sbatti un po’ del resto: e quel “po’ del resto” è anche il pensiero che non sei solo, c’è chi ti cerca, e ti vuole bene. E ti fa sentire vivo più che mai.
Ti toccherà un tocco di quel dubbio che aveva Cesare Pavese sull’atto dell’amore, per cui, come diceva, non saprai mai se la propria gioia è condivisa: perché tutto quel tempo che ci hai dedicato vorresti condividerlo almeno in spirito, con chi ti ha capito, e ti ha lasciato tutto quel tempo per permetterti di essere lì, in quei momenti, in quei luoghi che ti conoscono bene e ti chiamerebbero pure per nome.
Lo berrai con loro, quel primo bicchiere di vino nuovo, quando appena arriverà: perché lì dentro ci sei tu, ci sono loro. E tutto sarà più chiaro, la matassa verrà sciolta: come le parole con ciò che berrai. E ne parlerai, e te ne parleranno, come una confidenza.
Perché, del resto, «’l vin e ij segrèt peulo nen vive ansema»: vino e segreti non possono coesistere.