Nonostante da quella terribile primavera siano ormai passati 34 anni, per chi vis­se quei giorni, anche da semplice spet­tatore, è come se il disastro fosse accaduto ieri.

All’1,23 del 26 aprile 1986 una forte esplosione all’interno della centrale nucleare “Lenin”, in Ucraina settentrionale, scoperchiò il reattore, sprigionando una nube ra­dioattiva che avrebbe cambiato per sempre la storia dell’Unione sovietica (secondo alcuni storici finita proprio in quel giorno) e di tutto il continente europeo.

In queste settimane, la miniserie te­­­levisiva “Chernobyl”, riproposta “in chiaro” su La7, ha fatto riaffiorare in molti il ricordo del­le settimane successive a quella tragedia, sentita a tal punto dal Pie­monte che, nel 1994, nella nostra regione, nacque l’associazione “Smile”, pensata per da­re sostegno alle popolazioni colpite dal disastro (specie della Bie­lorussia, nazione che confina con il luogo dell’incidente nu­cleare) attraverso l’accoglienza tem­po­ranea di minori di quell’area presso famiglie piemontesi e non solo. Ne abbiamo parlato con Ales­sandra Gi­rau­do di Ca­val­lermaggiore, presidente na­zio­nale del sodalizio che da 26 anni le­ga le “terre di Chernobyl” al Pie­monte e alla Granda.

Alessandra, ha guardato nei giorni scorsi la serie tv?
«Sono sincera: no, perché sono sensibile alle immagini forti. Mio marito, però, l’ha guardata e di tanto in tanto mi è capitato di sbirciare. Credo che emergano in modo chiaro i due drammi generati da quell’evento: quello delle vittime, morte dopo aver affrontato dolori disumani, e quello di un popolo intero, tradito dal governo che avrebbe dovuto proteggerlo e che invece, non fosse stato per la rapida propagazione di quella nube tossica, forse avrebbe nuovamente coperto tutto, come già accaduto negli anni ’50 in seguito all’incidente nucleare di Majak, dimenticato da tutti».

Lei ricorda quei giorni?
«Li ricordo molto bene: avevo quindici anni e vis­si quella situazione profondamente anche dal pun­to di vista umano. Erano gli anni in cui si stava sviluppando una sensibilità ambientale diffusa e, alla luce di ciò, sembrava impossibile che un nemico invisibile, proprio come il coronavirus di oggi, potesse causare una strage di tale portata».

Come prese vita “Smile”?
«L’associazione nacque dal­l’ini­zia­tiva di alcune famiglie biellesi che, nei primissimi mesi successivi alla strage, avevano aderito a programmi di accoglienza pro­mossi da Lega­m­biente e che poi scelsero di organizzarsi con uno statuto preciso. Da lì, la diffusione è stata capillare e ha coinvolto molto la provincia di Cuneo».

Quali bambini vengono accolti dalle famiglie che sposano il vostro progetto?
«Sono minori di almeno set­te an­ni provenienti dai villaggi si­tuati nel Sud-Est della Bie­lo­rus­sia, ovvero l’area più colpita dalle radiazioni diffuse da Chernobyl, che si trova in Ucraina ma a pochi chilometri dal confine, e dalle conseguenze economiche e sociali che ne sono derivate».

Perché accogliere oggi, con il disastro lontano trent’anni?
«Per ragioni sanitarie, dal mo­mento che le radiazioni abbandoneranno quelle aree solo tra migliaia di anni, e per motivi sociali e psicologici. Inoltre, quando si ospita, si mette in atto uno scambio, che giova all’ospite ma anche e soprattutto a chi accoglie questi bambini».

L’esigenza sanitaria è prioritaria rispetto a quella sociale?
«No, anzi, credo che la questione della salute sia solo uno dei tanti elementi in gioco. Il vero tema è quello sociale: le famiglie di quelle aree furono da subito costrette ad abbandonare le loro terre e, di conseguenza, la loro vita di sussistenza, che, seppur povera, consentiva loro di sopravvivere. Nel giro di poco tempo, piaghe come l’alcolismo e l’isolamento sociale diventarono all’ordine del giorno e sono ancora oggi molto marcate. Ecco perché, sin dal 1994, ac­cogliere significa anche e so­prat­tutto agevolare la crescita psi­cologica e sociale dei minori».

In cosa consiste l’accoglienza assicurata dalle famiglie?
«In un’ospitalità temporanea: in nessun caso essa può sfociare in adozione, come invece si è fatto talvolta erroneamente credere. I bambini raggiungono le famiglie iscritte al progetto e soggiornano presso le loro case per circa due mesi nel periodo estivo oppure per quindici o trenta giorni in quello natalizio. Nel corso della permanenza si alternano attività proposte dall’Associazione, co­me Estate ragazzi, gite e viaggi di istruzione, alla più semplice vita quotidiana in famiglia».

Che cosa significa, invece, accogliere per chi ospita?
«Significa mettersi in gioco, da un punto di vista sociale, linguistico, culturale ed economico. Acco­glienza vuol dire, in primo luogo, incontro con un mondo diverso, che va compreso e integrato nel­la vita di tutti i giorni. Ecco perché da anni organizziamo incontri propedeutici con uno psicologo rivolti alle famiglie pronte ad accogliere, nei quali si cerca di aiutarle in questo percorso».

Cosa è cambiato con il Covid?
«Tanto: al momento abbiamo sce­lto di stoppare la sessione di accoglienza prevista per luglio e agosto. La nostra intenzione è quella di ripartire a dicembre, nella speranza che il governo bielorusso possa agevolare il nostro operato con proposte fattibili».