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I ricordi di Carlo Levi legati a Savigliano

Beppe Mariano condivide il racconto della visita, 55 anni fa, dell’autore di “Cristo si è fermato a Eboli”

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Poco meno di cinquant’anni di saggi e articoli pubblicati sulle riviste letterarie italiane. Il poeta saviglianese Beppe Mariano ha raccolto il suo lavoro in un libro che è sta­to appena pubblicato dall’editore torinese “Achille e la tar­taruga”, intitolato “Per­lu­stra­zioni letterarie e teatrali”. Una fotografia della società italiana con alcuni momenti memorabili, come ad esempio il racconto di quando Carlo Levi tornò in visita a Savigliano.
Ecco come Beppe Mariano ri­corda l’articolo da lui scritto e de­dicato al legame tra la sua città e lo scrittore piemontese. «L’anno era il 1965, giugno il me­se. Ricordo che a Savigliano era giorno di mercato. Nel tratto di portici tra le due piazze principali, di fronte a una storica pasticceria dal frontale “liberty”, scorsi un signore intento a scrutarne i fregi e la vetrina. Lo riconobbi, non senza incredulità. Che mai faceva a Savigliano Carlo Levi, il grande autore di “Cristo si è fermato a Eboli”? Emozionato, mi presentai. Mi raccontò d’essere stato a Sa­vigliano quarant’anni prima, quando, da poco laureato in medicina a Torino, svolse parte del servizio di “leva” nel locale ospedale militare (allora fatiscente, oggi restaurato e sede staccata del­l’Università di To­rino). Era quella la prima volta che ritornava a Sa­vi­gliano. Pro­veniente da To­ri­no, era accompagnato da un giovane impiegato dell’editrice Ei­naudi. Levi mi disse che avrebbe voluto ritrovare alcuni luoghi saviglianesi di cui aveva va­ga memoria. L’ospedale militare, innanzitutto, nei pressi del quale ricordava un bel teatro in stile neoclassico, dove era stato ad ascoltare qualche concerto, qualche ope­ra lirica (attività per la quale il teatro era allora famoso in ambito regionale).
Mi chiese di fargli da gui­da. Non mi sembrava vero di potermi accompagnare al grande scrittore, del quale leggevo spesso su “La Stampa” gli elzeviri scritti con lo stesso magistero stilistico del suo capolavoro. Nel 1922, poco prima dei suoi viaggi di “formazione” a Fi­renze e a Roma, compiuti con il fratello Riccardo, Carlo Levi aveva iniziato a collaborare al settimanale “La rivoluzione liberale”, fondata nel febbraio di quello stesso anno da un altro grande torinese, Piero Gobetti. Levi l’aveva conosciuto nel 1918, al tempo del liceo, quale fondatore del quindicinale “Energie nuove”, con il quale Gobetti si proponeva di “portare una fresca onda di spiritualità nella gretta cultura italiana”. E fu per restare a Torino, o comunque nell’ambito torinese, vicino all’amico Gobetti e ai suoi sodali, che Levi, al mo­mento di espletare l’obbligo militare, richiese di essere inviato all’ospedale militare di Savi­gliano (sarebbe poi stato inviato a Firenze, come ricordano le sue biografie). Eravamo ormai giunti all’ingresso dell’ospedale militare, allora ancora in servizio, Levi si fece riconoscere dal sottufficiale di guardia, il quale eccezionalmente permise la visita, purché fosse breve e circoscritta al piano terreno. Ricordo che Levi si meravigliò che dopo quarant’anni, lì nulla apparisse cambiato: gli androni un poco malinconici, certe anguste ca­merette con lo stesso mobilio d’allora, il vasto cortile, irto di erbacce, delimitato da un porticato sempre più sbrecciato… Quella visione riaccese nella sua memoria certi particolari di cui chiedeva conferma al sottufficiale: questi gli fece notare, rispettosamente, che la propria giovane età gli impediva di rispondere esaurientemente. Levi aveva ormai trovato gusto al ricupero mnemonico. Lasciato l’ospedale, cominciò a curiosare per stradine e cortili. Non capivo bene che stesse cercando. Mi rendevo conto tuttavia che adesso ero io a essere guidato da lui. Alla fine, spazientito, Levi mi descrisse con inevitabile ap­pros­sima­zione un cortile e una casa, do­ve allora era stato a pensione presso due giovani sorelle nubili. Me ne parlò con nostalgica eccitazione. Mi ac­cennò a due sorelle, generose a quanto capii di conforto verso ufficiali co­stretti in una città tanto lontana dalla loro. Do­vevo insomma ritrovargli quel cortile e quella casa. Dopo aver perlustrato buona parte del centro storico, fortuna volle che ci imbattessimo nella casa desiderata, rimasta integra (si tratta peraltro di uno dei più bei palazzi storici della città). Sulla sua facciata che guarda la piazza del Popolo, vi è una targa a ricordo della visita alla città del principe Amedeo di Savoia, avvenuta l’8 maggio del 1888 e del suo pernottamento nel palazzo medesimo. Levi non riconobbe subito il palazzo; riconobbe prima nel suo cortile i ballatoi settecenteschi, dove c’era allora al secondo piano la pensione. Com­mosso per il ri­trovamento, ormai quasi insperato, accennò a un suo quadro allora accolto alla Biennale di Venezia. Mi confidò d’aver continuato a dipingere anche a Sa­vigliano, adattando allo scopo una camera della pensione, con grande soddisfazione delle due sorelle, presumibilmente inorgoglite di ospitare un artista. La sua perlustrazione nostalgica di Savi­gliano, fatta di ricordi per lo più modesti, ma riaccesi e ricolorati dallo struggente ricupero dei propri vent’anni or­mai lontanissimi, terminò nel­la stessa pa­sticceria dove l’avevo riconosciuto. Gli offrii una specialità locale: l’arimondino al rhum. «Che il discusso eroe di Adua (il generale Giuseppe Edoardo Arimondi nacque a Savigliano, cadde nella battaglia di Adua e fu decorato con la medaglia d’oro al valor militare alla memoria, ndr) lo si ricordi soprattutto in pasticceria è buona cosa: serve ad addolcire un personaggio amaro», fu pressappoco il suo commento divertito e pungente.

BaNNER
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