«Ho cercato di guardare dentro il problema e anche oltre, per capire meglio la metamorfosi che stiamo attraversando». Ezio Mauro ne ha parlato nel libro appena uscito per Feltrinelli: “Liberi dal male – Il virus e l’infezione della democrazia». Perché la trasformazione è cominciata con la comparsa del coronavirus e sta a noi dominarla.

Direttore, che cosa è accaduto e sta accadendo in Italia al di là del contagio virale?
«Si sta sviluppando una metamorfosi, perché questo non è semplicemente un intervallo. C’è un secondo contagio, concettuale. Siamo passati dalla paure per la salute a quelle per l’organizzazione sociale, per i diritti e le libertà. Dalla sanità alle procedure, il contagio ha coinvolto valori e potere, destrutturando ogni aspetto».

Quindi è vero che “nulla sarà come prima”?
«Il virus ha intaccato il potere. Ma ha modificato anche noi, il nostro rapporto con lo Stato, i rapporti sociali, il lavoro e i diritti. Siamo stati pronti a cedere quote di libertà in cambio di maggior sicurezza. Sono questioni che fanno riflettere».

Si può sperare in un cambiamento positivo?
«Il caos genera sempre situazioni estreme. coinvolge la categorie assolute, vita e morte, cambia l’agenda istituzionale. Da un lato abbiamo assistito alla reazione responsabile dei cittadini rispetto alle limitazioni, all’autodisciplina nella costrizione.

E anche a fenomeni sottovalutati come il lavoro fondamentale di chi ha tenuto aperti i supermercati, chi usciva e andava a lavorare mentro noi eravamo protetti in casa. D’altra parte, ci sono state debolezze inaspettate del sistema sanitario, falle enormi, pressioni. E si è capito quanto il welfare sia stato taglieggiato senza logica. Insomma, la trasformazione in corso merita attenzione. Ma la politica sembra inerme»

Le rivolte che si stanno sviluppando nel mondo hanno un legame con tutto questo?
«Non direttamente ma è come una nuvola minacciosa. Questa crisi non è come quella di dieci anni fa, quando si era detto che in fondo al tunnel c’era una luce. Ma in un tunnel è sufficiente accendere le luci e procedere a bassa valocità per superarlo in sicurezza. Questa crisi invece è diversa. Ancora una volta pesa sui più deboli».

In che cosa è diversa?
«Camus l’aveva detto scrivendo La Peste: l’epidemia colpisce tutti. Ma in questo caso le differenze sociali risultano accentuate. Si fanno i conti con i problemi del passato. Le diseguaglianze sono già davanti a noi. C’è chi ha perso il lavoro, chi lo perderà. Si rischiano esclusioni. Ma la democrazia non può tollerare esclusioni».

«L’elezione di Obama ha avuto a suo tempo un grande valore simbolico, ma nei fatti non ha completato il percorso. Il razzismo è un’eredità storica per gli Usa, un problema che sfocia in quello delle armi, si intreccia con la democrazia sociale. Un problema irrisolto».

Tornando in Italia, il prossimo problema sarà quello della scuola?
«Bisognerebbe cogliere l’occasione e superare il morbo. Per ora sono venuti fuori i buchi del sistema, le fragilità tenute sotto controllo solo grazie allo sforzo degli insegnanti, alla buona volontà delle famiglie. Ma il sistema ha mostrato i suoi limiti, le solite distanze tra nord e sud, il problema del ritardo digitale. Con i genitori che non potevano lavorare in smartworking se i figli avevano lezione online e viceversa. Bisogna sfruttare i finanziamenti europei per aumentare la qualità digitale».

Che cosa si aspetta dalle scelte del Governo e dal piano di Colao?
«Gli errori li hanno fatti tutti, dal Brasile alla Gran Bretagna, dalla Svezia alla Francia, e in fondo il Governo ha gestito l’emergenza, considerando che all’Italia è toccato un ruolo di cavia dell’Occidente. Le misure restrittive sono state adottate senza sulla base di nessun precedente. Le abbiamo sperimentate sul campo, con il ruolo di vittima predestinata che ci avevano assegnato gli altri».

E alla fine il virus è diventato meno letale.
«Ma proprio grazie alle misure di contenimento, non perché sia evaporato. Il Governo quindi, in qualche modo ce l’ha fatta. Ora con questi Stati Generali (una parola pass-partout che non vuol dire nulla, cerca una base culturale a cui fare riferimento.

Vista la fragilità della maggioranza, chiede sostegno alle corporazioni, cerca appigli nella società. Per avviare una ricostruzione con lo spirito del dopoguerra. E con gli aiuti dell’Europa, che hanno annientato i sovranisti».

Lei è di Dronero, la sua famiglia ha origini a Roddino: come vede il dopovirus nel Cuneese?
«Da bambino trascorrevo l’estate nelle Langhe, il richiamo è naturale e il riconoscimento è forte. Fenoglio definì le Langhe terra “della malora” perché difficile da coltivare. Il miracolo della trasformazione, la bellezza e la potenza paragonate a quella “malora” potrebbero essere un bell’esempio per questa nuova metamorfosi. L’ho vista in una generazione, si può fare».