«Penso ad Enea e al padre Anchise»

Fredo Valla, il regista e sceneggiatore di Ostana: «Nella prigionia di questi giorni possiamo cercare una nuova libertà di pensiero»

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Isolato (anche se non solo, visto che Ostana conta una trentina di abitanti) lui lo è da sempre e non sembra proprio partirne. Anzi, forse proprio grazie alle scelte di vita che ha fatto, Fredo Valla, regista e sceneggiatore italiano, sa bene quanto prendersi i propri spazi sia una condizione fondamentale per vivere a un livello di profondità diverso. Autore di numerosi documentari legati alla memoria in senso ampio, capace di creare con il regista Giorgio Diritti un so­dalizio artistico solido e apprezzato (fresco degli ottimi riscontri ot­tenuti a Berlino da “Volevo nascondermi”, film con Diritti alla regia, e il valligiano come co­sceneggiatore e coautore del soggetto, che poche settimane fa è valso l’Orso d’argento a Elio Ger­mano come miglior attore), Fredo Valla è la persona giusta per analizzare i tempi che stiamo vivendo da una prospettiva diversa.

«Sento quasi ogni giorno il mio amico Remo Schellino (documentarista fariglianese, ndr) e parliamo spesso di queste cose, ci diciamo che non è una novità», commenta Valla, nativo di Sampeyre. «Oggi si scopre la bellezza di una vita più naturale ma quando era il momento? Tutti di fretta, tutti di corsa, tutti a mettere prima l’interesse e anche l’inutilità di certi consumi invece di una vita più lenta, ma più sana. Se c’è una cosa di cui sono contento è della mia scelta di vivere in montagna, un po’ perché ognuno di noi ha il suo spazio e questo è il mio, ma anche perché questa vita non mi impedisce di fare il lavoro che faccio, ma mi fa stare a contatto con la natura. Spero davvero che questa sia un’occasione per riflettere. Sono perplesso quando sento, per esempio dai giornalisti in tv “Quando riapriremo?”, “Quan­do tutto tornerà come prima?”. Mi sembra un atteggiamento infantile, come quello dei bambini che in auto chiedono continuamente ai genitori quando si arriva. Arriviamo quando arriviamo e questa cosa sarà finita quando finirà, quando i numeri diranno che il comportamento sociale che abbiamo messo in atto in questo periodo avrà attenuato la virulenza del morbo e avremo imparato tutti a comportarci in maniera più saggia. Finirà davvero forse solo quando si troverà un vaccino. Non posso dire che fosse auspicabile, ma penso che questa cosa lascerà inevitabilmente un segno. Uno lo ha già lasciato: in queste settimane mi è venuta in mente molte volte l’immagine della caduta di Troia e di Enea che fugge con il padre Anchise sulle spalle… penso che questa tragedia abbia fatto riaffiorare degli elementi ancestrali, forse del nostro carattere mediterraneo, che ci hanno fatto dire “No, non vogliamo lasciare che i vecchi muoiano”.

Crede che questo periodo ispirerà i tuoi lavori? Anche in base alla chiave di lettura che hai appena evidenziato?
«In qualche modo la questione della memoria e della sua trasmissione, del passaggio del sapere dagli anziani che lo detengono ai giovani che lo accolgono, è sempre stato un tema dei miei lavori. Io però lavoro più sulla distanza, lascio maturare le cose, mi è difficile lavorare nell’immediato, sulla contemporaneità. So che molti registi stanno cercando di raccontare il momento che viviamo, ma per me è meglio lasciar passare un po’ di tempo. Comunque è indubbio che ci sarà un prima e un dopo Covid, non solo nei lavori artistici, ma anche nel parlare comune. Non potrà essere diversamente, perché in questo periodo avremo accumulato delle esperienze, avremo visto il vero volto della sanità, dei medici e degli infermieri che mettono in pratica veramente il giuramento che hanno fatto».

Uno dei suoi documentari che parla di altro ha un titolo che sarebbe perfetto per parlare della nostra condizione di oggi: “Prigionieri della libertà”…
«In effetti, rende il senso di come la libertà può essere anche costrizione e viceversa. I protagonisti di quel documentario fecero un’e­sperienza straordinaria, quella di conoscere l’India, loro che erano cresciuti in un’Italia monoculturale, quella del regime. Prigionieri in un campo, dopo l’8 settembre poterono uscire e scoprire un’altra civiltà, così quella prigionia divenne occasione di libertà di pensiero e molti descrissero quello come il periodo più bello della loro vita. Allo stesso modo la condizione che stiamo vivendo può essere occasione per liberare il pensiero, capire cose che non abbiamo capito fino ad adesso, renderci conto dell’inutilità di certe abitudini, di certi comportamenti. Nella prigionia si può anche scoprire la libertà, anche dal punto di vista religioso: pensa agli eremiti che si sono ritirati in una cella, o agli stiliti del primo cristianesimo che sulla loro colonna si aprivano al mondo, al pensiero di dio e all’immenso».

Insegna anche cinema. Facen­dolo ha imparato qualcosa?
«Altroché! Ogni tanto mi chiedo se l’insegnamento non fosse la mia vera vocazione, quello che avrei dovuto fare nella vita. Ho insegnato all’Aura scuola di cinema di Ostana e alla scuola di Bobbio della Fondazione Fare Cinema di Bellocchio e sono state esperienze straordinarie. In realtà il termine straordinario è improprio, perché mi rendo conto che appartengono proprio al mio essere. Mi sento bene quando insegno, ricevo lettere commoventi dai miei allievi, che esagerano anche i miei meriti… Stare con loro mi dà mol­to, sicuramente un collegamento con il mondo di oggi, con alcuni nasce un rapporto di amicizia, mi raccontano le loro storie, anche personali, e io a mia volta racconto la mia, ci incontriamo in questi racconti come dei coetanei. Vengono a trovarmi, mi scrivono anche in questo periodo di isolamento, si chiedono come me la passi quassù».