«La nostra vita cambierà molto con questa crisi»

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«Una guerra? No, per me questo è qual­cosa di molto più profondo, pericoloso e impattante. Ma ci può insegnare anche qualcosa». Mai ba­nale, sempre attento e capace di cogliere nel segno. Quando par­la, Amilcare Merlo fa comprendere come sia riuscito, partendo dalla piccola officina del padre, a creare una multinazionale metalmeccanica.

La Merlo oggi è questo: una realtà affermata a livello internazionale specializzata nella produzione di sollevatori a braccio telescopico, betoniere auto-caricanti, trattori forestali, mezzi cingolati, piattaforme semoventi e automezzi per raccolta urbana, con sede a San De­fen­den­te di Cer­­va­sca, ma filiali in tutto il mondo. Amilcare Merlo è forse la persona più adatta per leggere questo momento.

Quello che sta accadendo è pa­ragonabile a qualcosa che ha già vissuto?
«No, non ho mai vissuto nulla di simile. Non è assolutamente confrontabile al periodo del dopoguerra, come molti dicono. Quel­lo era un momento di felicità: eravamo poveri, ma ricchi di idee e di volontà. Ora è diverso. Siamo un popolo ricco, ma quello che sta succedendo cambierà moltissimo la vita di tutti noi».

In che senso?
«Mi riferisco al modo di lavorare. Le aziende al loro interno non saranno più uguali a prima, ci sarà una cura diversa delle persone. Dovremo essere competitivi per essere all’altezza degli altri Paesi, dovremo cercare l’efficienza massima nelle nostre aziende, che significa tecnologia, ricerca, organizzazione. E significa an­che accordi diversi tra industrie e sindacati, perché non sarà più possibile accettare un sindacato che sia rigido o un patronato che sia esigente. O­gnuno di noi deve fare un passo indietro».

A livello economico, che crisi sarà a suo avviso?
«Senza precedenti. Se guardo indietro, vedo due grandi crisi: quella del 1984 e quella del 2008. Ma hanno nulla a che vedere con questa, innanzitutto perché quelle non e­rano globali, mentre questa tocca tutti i Paesi del mondo e coinvolge o­gni categoria. Nella storia del­l’Italia non è mai successo che si fermassero le im­prese per un periodo così lungo: già solo questo fa capire la portata della crisi».

Come si ripartirà?
«Sarà molto difficile. Le imprese ripartiranno con problemi economici enormi e dovranno riorganizzarsi perché mancheranno mezzi e persone. Non è una previsione così difficile, purtroppo: credo che ci vorranno due o tre anni per riuscire a riprendersi».

Come giudica le scelte fatte finora dal Governo?
«Avanzare critiche in questo momento è troppo facile e comodo. Io ritengo che ci sia stato un ritardo iniziale, ma adesso mi sembra che tutti siano molto coscienti che la strada da seguire sia il mantenimento di questo rigore. A livello economico ci sono misure che prevedono finanziamenti alle aziende, ma poi è necessario capire in che cosa si tramuteranno a livello pratico. Da questo punto di vista ci sono tanti interrogativi. I finanziamenti saranno fondamentali, perché consentiranno di ripartire: senza soldi, la macchina non può riaccendersi».

Veniamo al vostro caso. Riuscite a quantificare i danni che porterà questa crisi?
«Per noi i mercati più importanti sono l’agricoltura, l’edilizia e l’industria, e sono tutti toccati dall’emergenza. In agricoltura, le macchine per le lavorazioni si vendono adesso, quindi è un anno perso. Per l’edilizia sarà ancora peggio, perché le imprese hanno difficoltà e non acquistano. Anche le società di “rental”, che sono diventati clienti importantissimi, per quest’anno non compreranno più niente. L’in­dustria è quella che potrebbe fare da bilancia, ma sappiamo che, senza incentivazioni, sarà in “stand-by” almeno per un anno».

Avete voglia di ripartire?
«Per ripartire bisogna essere vivi, se sei già morto non puoi farlo. Se ascoltassimo la volontà, ripartiremmo domani mattina. Ma è ne­cessario farlo con basi concrete di sicurezza, altrimenti si finirebbe per vanificare tutto. Lo dico con grande tristezza, perché vorrei ricominciare il prima possibile, ma ora non si può. Prima di tutto bisogna sopravvivere. Quan­­do ripartiremo? Difficile fa­re ipotesi, dipende dalla nostra organizzazione sanitaria. Bisogna fare il possibile per accorciare i tem­pi, ma ripeto: prima di ricominciare dobbiamo avere la certezza che non creeremo un disastro».

Secondo lei, c’è qualcosa che ci può insegnare questa tragedia?
«Tutte le guerre, nella loro tragica negatività e a costi spaventosi, alla fine ci hanno portato anche a fare dei punti. Per esempio, l’Eu­ropa è cambiata dopo la seconda guerra mondiale, si è e­voluta maggiormente di come avrebbe fatto senza il conflitto. L’e­mergenza coronavirus può far capire a noi italiani che sen­za impresa non si può sopravvivere, perché un Paese senza impresa rischia di essere un Paese degradato, senza un futuro. Fino a oggi l’impresa è sempre stata considerata una macchinetta per far fare soldi a qualcuno sfruttando qualcun altro. Questa situazione ci porterà a ragionare sul fatto che l’impresa non è quello, ma è ciò che genera per noi la possibilità di vivere bene. E poi ci sono i giovani: devono partecipare di più al mondo del lavoro, la scuola in Italia deve essere più operativa e meno teorica. Ma questa situazione deve insegnare anche qualcosa a tutta l’Europa, che ha ri­sposto in maniera slegata al­l’emergenza. Ogni nazione è partita con i suoi tempi e con i suoi modi per af­frontare la situazione, perché non eravamo collegati. Ci deve es­sere un’Europa molto più unita».

L’Italia ce la farà?
«Certo che ce la farà. Salvo qualche eccezione, gli italiani hanno dimostrato di essere responsabili, rispondendo bene, con senso di appartenenza e sacrificio. Bisogna andare avanti così e non abbassare la guardia».