La ciclista, classe 1998, eccelle sia su pista che su strada e dopo il mondiale “juniores”
vinto a Doha nel 2016 ha altri ambiziosi obiettivi

Donne e sport, binomio tanto fe­condo quanto trascurato. Provia­mo a sondarlo attraverso Elisa Balsamo, la promessa italiana e non solo, del ciclismo. Uno sport duro, dall’alta percentuale di eroismo, si direbbe per soli uomini. E, invece, l’istinto alla vittoria non conosce sesso.

Il 14 ottobre 2016 l’atleta della Val­car Pbm si è laureata campionessa del mondo su strada nella categoria “juniores”, a Doha, in Qatar, imponendosi in una volata di una cinquantina di atlete, con uno “sprint” fulminante. Su un percorso totale di 74,5 chilometri ha vinto la gara con il tempo di 1h53’04”, alla media di 39,534 km/h.

Dal 2017 la ventenne peveragnese gareggia tra le “élite” e la fame di medaglie non si è arrestata. Dopo l’oro nell’inseguimento a squadre, ha conquistato il bronzo nell’“omnium” agli ultimi campionati europei su pista, disputati a Berlino.
Al Museo della bicicletta di Bra, dove è stata celebrata con i massimi onori, Elisa si è presentata con la spontaneità che la contraddistingue, dimostrando di aver la testa tra le nuvole del­l’Olimpo sportivo, ma i piedi ben saldi per terra o, meglio, nelle proprie radici.

Chi è Elisa in tre aggettivi?
«Permalosa, determinata e generosa».
Cosa sognavi di fare da piccola?
«Volevo fare il pilota di aerei, ma era una cosa alquanto irrealizzabile (ride, ndr)».
Come nasce la tua passione per il ci­clismo?
«I miei genitori so­no sempre andati in bici. Mia madre era appassionata della due ruote e mio padre ha fatto gare fino alla categoria “dilettanti”. Loro non mi hanno mai spinto verso l’agonismo, tant’è che all’inizio ho praticato diversi altri sport. Però, alla fine, ho scelto questa disciplina, perché era quella in cui mi sentivo più portata».

Chi sono i tuoi miti?
«Non c’è una singola persona. Mi piace prendere spunto e magari unire pregi e talenti di più atleti. Tuttavia, fra tutti, mi piace ricordare Alex Zanardi».
Quali sono i tuoi punti di debolezza e quali quelli di forza?
«Tra i secondi credo ci siano la de­terminazione e la voglia di coinvolgere nell’obiettivo anche le mie compagne, cercando di fa­re gruppo e di trovare una soluzione insieme. I miei punti deboli sono tanti ed è difficile spiegarli. Tutti ne abbiamo e la difficoltà di affrontare giornate più negative di altre è uno di questi».

Quali sensazioni provi ora che ti trovi nella categoria “élite”?
«Il salto di categoria è grande. Passare dalle “uniores” a questa categoria è davvero molto dura. Però sono contenta, perché, grazie al supporto della mia squadra, ho raccolto buoni risultati».

Che differenza c’è tra correre su pista e farlo su strada?
«La pista e la strada sono complementari, perché se uno si allena per la pista può andare bene anche su strada, rimane solo da sviluppare un po’ il fondo. In­vece il contrario è molto difficile. Se ti alleni per la strada è quasi impossibile andare bene anche in pista. Su quest’ultima le gare sono molto più brevi, richiedono velocità elevatissime».

È più difficile difendere un titolo o conquistarlo?
«Sono due cose molto difficili. A parer mio, però, è più difficile difenderlo, specie quando il titolo si conquista in giovane età e non si è molto conosciuti».

Che cosa ti ha dato lo sport?
«Tantissimo. Per me lo sport è uno stile di vita. Mi ha permesso di conoscere moltissima gente, positiva e meno. Ho stretto amicizie che sono certo mi segneranno per tutta l’esistenza. Ho in­contrato persone che mi hanno insegnato non solo ad allenarmi e a comportarmi in bici, ma mi hanno dato lezioni di vita. Inoltre, il ciclismo mi permette di girare il mondo e di capire che co­sa vuol dire fare sacrifici per poi, magari, avere soddisfazioni».

Hai mai pensato: ma chi me lo fa fare?
«Il livello si è alzato tantissimo. Per noi donne è davvero difficile. Per gli uomini esiste la categoria “under 23”, intermedia fra “ju­niores” e professionismo. Per noi questa categoria non esiste, si passa a 19 anni a correre con donne più grandi e nelle prime gare è molto dura. Vanno fortissimo, bisogna fare tanti chilometri e, a un certo punto, ti capita di pensarlo. Succede quando non riesci più a far girare le gambe, ma la passione resta tantissima. Mi piace troppo e mi diverto».

Nei momenti di maggiore difficoltà che cosa ti carica?
«In 160 chilometri, quattro ore di pedalate ne puoi pensare di cose! Uno deve farsi una lista (ri­de, ndr). A parte gli scherzi, o­gnuna ha il suo… angelo custode. La fortuna di avere delle compagne di squadra è questa. Si cerca di andare a trovare quest’angelo custode, si scherza, si parla, si ride. Nelle gare più importanti abbiamo anche la radiolina e si può comunicare con l’ammiraglia; ogni tanto si raccontano barzellette. Il tempo lo facciamo passare in qualche modo».

Che ne pensi del “doping” e di chi è la colpa, quando un atleta decide di doparsi?
«Mi dispiace sentire queste parole, perché non tutti sanno come viviamo noi atleti. Siamo reperibili 24 ore su 24 e penso che questo quasi nessuno lo sappia. Per l’Ama (Agenzia mondiale antidoping) dobbiamo indicare tutti i giorni dove dormiamo e dare la reperibilità. Spesso arrivano i controlli a casa. Quindi, forse, chi parla male degli sport e degli sportivi, alludendo soprattutto al ciclismo, non sa forse tanto bene quello che dice».

A che cosa non rinuncerai mai?
«All’onestà».
A chi devi dire «Grazie!»?
«In particolare alla mia famiglia che mi supporta. Senza di essa sarebbe davvero impossibile. In secondo luogo, ma non è meno importante della famiglia, sono ri­conoscente alla squadra, perché mi ha fatto crescere. Ho cor­so con la Valcar Pbm anche nella categoria” juniores” e grazie a tutto il “team” ho potuto fare il sal­to di categoria. Adesso la so­cietà mi sta accompagnando an­che in questo percorso».

Qual è il panorama più bello che hai visto, grazie allo sport?
«Dal punto di vista paesaggistico direi la Norvegia: è davvero bellissima. Ha dei panorami fantastici e una natura stupenda».
Che cosa ti ha colpito del Museo della bicicletta di Bra?
«Mi è piaciuto tantissimo vedere tutte le biciclette da lavoro ed è bello pensare che qualcuno ab­bia raccolto e riprodotto bici del passato che io neanche pensavo esistessero. Poi il numero infinito di maglie di tutti gli atleti che hanno contribuito a realizzare questa esposizione unica e ricchissima di ricordi. Un oggetto “cult”? Impossibile scegliere, perché ci sono così tante cose!».

Sogno nel cassetto?
«Partecipare alle Olimpiadi».
Progetti futuri?
«Cercherò di affrontare al meglio le classiche del nord che arrivano dopo la conclusione della stagione su pista».
Che consiglio dai per essere vincenti?
«Pensare di essere forti, tenendo presente che le eventuali forzature dei genitori non portano da nessuna parte. Se, invece, le cose si fanno per autentico divertimento, tutto viene di conseguenza. Quindi il mio consiglio è quello di divertirsi».
Ovviamente in sella a una bici!