Il primo film che le nostre nonne e le nostre madri andarono a vedere dopo la guerra fu “Via col ven­to”. Molte si identificarono in una scena: Rossella torna nella fattoria, la trova distrutta e, siccome non mangia da giorni, strap­pa una piantina, ne ro­sic­chia le radici, la leva al cielo e grida: «Giuro che non soffrirò mai più la fame!».
è la stessa promessa che, settant’anni fa, espressero i nostri nonni, le nostre nonne, i padri e le madri, quando, all’indomani della seconda guerra mondiale, si rimboccarono le maniche per ri­costruire un Paese distrutto.
Dell’Italia di allora parla Aldo Cazzullo nel libro “Giuro che non avrò più fame-L’Italia della ricostruzione”, edito da “Mon­da­dori”, in cui ripercorre un an­no chiave, il 1948, attraverso la politica, la società, lo sport, l’economia e la vita culturale.
“IDEA” ha intervistato la celebre firma del “Corriere della se­ra” a proposito di que­st’ul­ti­ma opera, presentata di recente anche ad Alba, che si in­se­risce a pieno titolo tra i saggi
de­dicati dall’autore alla storia e al­l’identità italiane.
L’Italia di allora e quella di oggi: quali sono le affinità?
«Oggi l’Italia è di nuovo un Paese da ricostruire: dobbiamo ricostruire i ponti, le periferie, ma dobbiamo ricostruire so­prattutto la fi­ducia in noi stessi e nel futuro e per questo è utile ca­pire come abbiamo fatto l’altra volta, settant’anni fa, dopo la guerra mondiale».
Come accade in altri suoi libri, anche in questo lei racconta la Sto­ria attraverso le storie di molte persone semplici…
«Sì, racconto la vita nelle campagne. La bambina che, a inizio libro, riceve una mucca di terracotta per Natale è mia mamma. “Giuro che non avrò più fame” comincia con una descrizione di che cosa ricevettero a Natale del 1948 i bambini italiani: mandarini, fichi secchi. Il piccolo Riccardo Muti desiderava molto un fucile di legno con il tappo, ma ricevette un violino: pianse disperato e il padre concluse che non avrebbe mai a­vuto talento per la musica. Di­no Zoff voleva una maglia da portiere, ma la famiglia non se la poteva permettere e la mam­ma gli ricamò il numero “1” in rosso su una canottiera di lana a righe. Giovanni Trapattoni i­n­iziò a giocare a pallone con una vescica di maiale piena di stracci, ricevuta in regalo. L’I­ta­lia era un Paese infinitamente più povero di quello di oggi, in campagna in particolare. Le donne andavano a lavoro con le scarpe in mano per badare a non rovinarle, i bambini portavano a scuola un pezzo di le­gno per fare fuoco e scaldarsi. Ci si spostava in bicicletta. Non c’erano i telefoni, quindi per parlarsi bisognava incon­trarsi e guardarsi negli occhi. Si era poveri, ma umanamente più ricchi e, quindi, anche più fe­lici. In questo momento do­vremmo recuperare quell’e­nergia e quella fiducia di cui fu­rono capaci i nostri padri e nonni e, direi, anche le nostre madri e nonne».
Il femminile è d’obbligo perché nel suo libro sono raccontate anche le storie di tante donne in anni in cui, finalmente, con fatica, iniziavano a emergere.
«Esatto, sono anni in cui le donne si riprendono un ruolo. Iniziano a uscire di casa, a votare, a decidere il loro destino, a rendersi autonome e lavorare. L’Italia era un Paese molto ma­schilista, si diceva “Auguri e figli maschi”. Una famiglia ebbe 35 figlie femmine perché il pa­dre decise di andare avanti fino a quando non fosse arrivato il maschio: ebbero solo femmine, la prima si chiamava Nilla come Nilla Pizzi, l’ultima Romina come Romina Power. A Paler­mo un marito per due settimane non andò a fare visita alla moglie dopo il parto perché a­veva partorito una femmina e lui sosteneva non potesse essere sua figlia, perché da lui a­vreb­be avuto un maschio. In quegli anni inizia la grande ascesa delle donne: Tina Merlin fa chiudere il carcere di tolleranza, Teresa Mattei viene cacciata dal Partito comunista perché rimane incinta di un uomo che non era suo marito e decide di far nascere lo stesso il figlio e chiamarlo Gianfranco, come il fratello ucciso dai nazisti. In que­gli anni si assiste alla competizione tra Anna Magnani e Ingrid Bergman, così come alla vicenda di Giulia Occhini, la “dama bianca” finita in carcere per la relazione extraconiugale con Fausto Coppi».
L’Italia era un Paese distrutto, che però non aveva perso la vo­glia di vivere…
«Sì, è così. Era un Paese distrutto che non aveva perso la voglia di vivere, ma anche di uscire, di divertirsi, di fare, sperare, cantare, ridere. Non dimentichiamo che quelli furono anche gli anni di Totò, Erminio Macario, Gilberto Govi, Carlo Dapporto, di un giovane Alberto Sordi, di un giovane Valter Chiari, di un giovane Gino Bramieri. Far ri­dere gli italiani, all’epoca, era anche più facile di adesso».
Anche in quest’opera non man­ca l’attenzione al Piemonte, ad Alba, alla sua terra insomma.
«In questo libro ci sono molta Alba e molto Piemonte. Un po’ perché io da lì vengo, un po’ perché la nostra regione è stata davvero la “capitale della ricostruzione”. Sono piemontesi quasi tutti i grandi ricostruttori d’Italia. Vittorio Valletta ricostruì la Fiat e non fu facile, basti pensare che all’epoca Mirafiori aveva 55 mila operai e che, quando rientrarono in stabilimento dopo l’attentato a Pal­miro Togliatti il 14 luglio 1948, tre operai comunisti armati di mitra comunicarono che la fabbrica automobilistica era occupata. Valletta alzò lo sguardo e disse che, per prima cosa, a fatti finiti, quei tre sarebbero stati licenziati e in effetti fece proprio così. Luigi Einaudi fu davvero un grande Pre­sidente della Re­pubblica. Nel libro racconto un episodio divertente di quando egli invitò al Qui­rinale i giornalisti a pranzo. Al momento del­la frutta disse: “Mangerei vo­len­tieri una pera, ma sono troppo grandi, non vorrei sprecare. C’è qualcuno che vuole fare a metà della pera con me?”. En­nio Flaiano alzò la mano e tem­po dopo scrisse: “Vennero poi altri Presidenti della repubblica e cominciò l’epoca delle pere in­divise”. Era piemontese an­che Adriano Olivetti, il “nostro Ste­ve Jobs”, il primo nella storia dell’umanità, insieme a un in­gegnere italo-cinese, a concepire e a realizzare un computer. Nel libro cito inoltre imprenditori come Angelo Gaja e Oscar Farinetti e tanti altri personaggi legati a questo territorio. Alba, in particolare, è una città cresciuta molto in questi anni, un po’ in controtendenza rispetto al resto della penisola, ma non possiamo di­men­ticare di es­se­re sta­ti an­che noi gente po­ve­ra, anche se mai povera gen­te».